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Che "fine" ha fatto Adolfo Baruffi?

04-06-2008 / A parer mio

di Paolo Veronesi

Pochi mesi orsono si è consumato un piccolo evento cinematografico che, pur coinvolgendo Ferrara, non pare abbia avuto (se mi è sfuggito, mi scuso per la disattenzione) un'adeguata risonanza tra le mura cittadine. La rivista "Meridiani-Montagna" ha infatti distribuito, in allegato al fascicolo di gennaio 2008, il dvd di un cortometraggio d'altri tempi. L'opera, data ormai per introvabile, è stata invece dissepolta dai polverosi magazzini della Cineteca nazionale di Milano e opportunamente restaurata. E' stata quindi presentata al Film Festival della Lessinia dell'agosto dell'anno scorso e al Circolo della Stampa di Milano il 15 gennaio 2008. Chi nutrisse la curiosità di assaporarla la può reperire senza alcuna difficoltà su YouTube.
Perché tanto interesse per un documentario di dieci minuti girato niente meno che nel 1951 e avente ad oggetto la vita quotidiana del postino di Colle Santa Lucia, paesello di lingua ladina collocabile tra l'agordino e il Cadore (e proprio "Il postino di montagna" è il titolo del film)? Perché l'autore del commento parlato (a dir la verità, un tantino debordante) è un tal Dino Buzzati, giornalista e scrittore che non abbisogna certo di presentazioni. Il film, tuttavia, non è stato diretto dall'autore de Il deserto dei Tartari. Dietro la macchina da presa stava un giovane ferrarese, all'epoca molto noto in città. Il suo nome è Adolfo Baruffi. Quest'ultimo è dunque il regista del cortometraggio che viene oggi presentato come un piccolo capolavoro, oltre che come una preziosa testimonianza. E forse Baruffi ne curò anche la produzione, visto che quest'ultima è attribuita a una tal "CABA film", ed è assai probabile che il "BA" della sigla stia appunto per "Baruffi" (anni dopo anche Florestano Vancini diede vita a una "GAVA film", che, guarda caso, riduceva nel "VA" proprio il suo cognome). L'operatore era poi un altro ferrarese che ha lasciato un'impronta in più d'una generazione di registi cittadini: Antonio Sturla.
Che cosa rappresentasse all'epoca Adolfo Baruffi a Ferrara si ricava tra le pieghe degli scritti dedicati al cinema ferrarese del secondo Dopoguerra. Basta sfogliare i documentatissimi resoconti di Paolo Micalizzi per averne più che un assaggio. Sono però le interviste a Florestano Vancini - il regista ferrarese di recente insignito della laurea ad honorem presso il nostro Ateneo - che ci forniscono una pulsante testimonianza dello spessore umano e intellettuale di Baruffi.
Già nel 1945 Baruffi è impegnato, con Antonio Sturla, nella realizzazione de "La pianura", film che rimarrà incompiuto e che, forse in anticipo sui tempi, narrava di una crisi personale e sentimentale collocandola nel vortice delle vicende belliche cittadine. Nel 1949, assieme a Florestano Vancini, dirigerà poi il corto "Amanti senza fortuna", dedicato alla vicenda di Ugo e Parisina. Vancini e Baruffi, per il tramite dell'indimenticabile, per chi l'ha conosciuto, Carlo Alberto Antonioni, fratello di Michelangelo, terranno poi fruttuosi contatti con il regista già trasferitosi a Roma da qualche anno e ormai prossimo a esordire nel lungometraggio (accadrà nel 1950, con il perfetto e innovativo "Cronaca di un amore"). Antonioni - è Vancini a ricordarlo - sarà infatti gentile e prodigo di consigli per i due giovani "sognatori" ferraresi.
Al fianco di Florestano, Baruffi girerà poi, nell'ordine, "Uomini della pianura", "Pomposa", "Alluvione" e "Camionisti", tutti del 1950. "Delta Padano" è il primo corto girato dal solo Vancini nel 1951 (tra gli sceneggiatori figura Vittorio Passerini, altro personaggio assai noto in città); tappa essenziale di un percorso solitario che porterà Florestano a realizzare film alquanto raffinati e importanti eppure (purtroppo) così poco conosciuti presso le più giovani generazioni di appassionati.
Socio di Vancini (e di altri) nella Este film s.r.l. - la quale era subentrata alla Estefilm, ditta personale dell'intraprendente Florestano - il rapporto tra questi giovani registi si sfilaccia proprio in conseguenza della progressiva espansione della società, che vede i due protagonisti originari dell'avventura produttiva sempre più emarginati al suo interno. "La crisi tra me e Baruffi - anche se non drammatica, senza litigi, rimanendo in buone relazioni - nasce anche dai rapporti con la Este, che non è più nostra, e poi dal fatto che decido ormai di fare del cinema la mia professione, per conto mio. Lui resta nella società, gli viene offerto un incarico, prende uno stipendio, credo faccia anche qualche documentario, poi viene messo via. Non ne so nulla da molto tempo, aveva abbandonato il cinema e avviato un'industria di scarpe a Ferrara, poi è andato via. Era un ragazzo che scriveva benissimo, era anche poeta". Sono parole dello stesso Florestano Vancini, raccolte nel bel libro-testimonianza che gli ha dedicato Giacomo Gambetti (Gremese editore).
Probabilmente - azzardo - l'ultima opera di Baruffi, sfortunata proprio come quella d'esordio, è "Paternicilina" (1957). Tra gli attori figurano Ultimo Spadoni (all'epoca leader della Straferrara) e Beppe Faggioli, oltre a una nutrita schiera di altri caratteristi della Compagnia (ricordano le vicende di questo film sia Micalizzi, in "Al di là e al di qua delle nuvole", sia Maria Cristina Nascosi, nel volume dedicato alla storia della Straferrara). Il film narra una vicenda collocabile ben oltre l'assurdo; il suo plot prendeva infatti le mosse dai portentosi effetti di una sostanza che, se ingerita dalle donne in gravidanza, avrebbe imposto ai nascituri la stampigliatura del nome del loro vero padre (un vero timbro d.o.c. insomma). Parlato in stretto ferrarese, il film - nelle intenzioni di Baruffi - si sarebbe dovuto doppiare negli idiomi delle varie città in cui sarebbe poi circolato. Pur di non piegarsi alle regole del tempo, che imponevano l'uso dell'italiano o dei sottotitoli, Baruffi ne rifiutò però la distribuzione. Il film, a quanto risulta, è andato perduto.
Sarà forse un poco retorico, ma la storia di questo personaggio affascina e inquieta. Il suo cognome non risulta neppure più nell'elenco telefonico di Ferrara, quando, di norma, i patronimici residuano assai più a lungo della memoria dei loro possessori. Spulciando poi nell'Archivio storico dell'Università di Bologna, risulta che lo studente Adolfo Baruffi, nato a Ferrara, non abbia mai regolarizzato la sua iscrizione alla Facoltà di pedagogia. Non è riportata neppure una data, la quale compare invece per gli altri studenti - anche dell'800 - che non hanno poi concluso il loro percorso di studi presso l'Ateneo.
Se volete, quella di Baruffi ha tutta l'aria di una microstoria come tante, e forse proprio questo la rende così fascinosa. Adolfo Baruffi, insomma, sembra incarnare non già il perdente (non sappiamo che ne sia stato della sua vita) ma - quanto meno - colui che ha dovuto (questo si) rinunciare a un sogno, pur avendo, probabilmente, la stoffa necessaria per raggiungerlo. E' sempre Vancini ad esclamare infatti che il ragazzo aveva "dei numeri". Quasi tutti, nella loro vita, hanno infatti dovuto rinunciare a un esaltante progetto (anche perché magari privi del talento richiesto per coltivarlo) e questo ci rende la sua storia in qualche modo familiare; sorprende però che a distanza di tanti anni (e di tanto silenzio) il suo nome continui, di tanto in tanto, ad affiorare proprio tra il tessuto di quel sogno che il nostro ha dovuto riporre nel cassetto. E aleggia persino nei titoli di testa di un dvd diffuso niente meno presso le edicole, inserito su YouTube e giustamente descritto come un gioiello impropriamente dimenticato (provate a osservarlo annullando il sonoro). Per cui, per favore - e lo dico, in primis, per sopire una curiosità personale - c'è qualcuno che sa "che fine ha fatto Adolfo Baruffi"? E sia chiaro che in questa domanda risuona solo l'eco di un omaggio. Reso prendendo a prestito il titolo di un noto film di Robert Aldrich. A Baruffi, probabilmente, il riferimento farà piacere: tra cinefili, in genere, ci s'intende.

(vrp@unife.it)