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La segnalazione: Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, di I. Pavan

18-09-2006 / A parer mio

di Giuseppe Muscardini

Si registra nel nostro Paese un caso storicamente anomalo, su cui gli studiosi hanno posto negli ultimi anni la loro lente. Un uomo ben inserito nel proprio ambiente sociale, in virtù delle cariche che occupava e della sua aurorale adesione al Fascismo, nel 1926 venne nominato Podestà con il pieno consenso di accoliti ed estimatori. E fin qui nulla di strano, se consideriamo il graduale espandersi dell'ideologia fascista in Italia, che pur contrastata da democratici e progressisti, avvolse ben presto le leve del potere. Ma quell'uomo era israelita, e quando dodici anni più tardi furono promulgate le inique leggi razziali, sulla numerosa famiglia del Podestà si abbatterono sventure e pericoli che imposero decisioni drastiche: prima la dimissione forzata dalla carica, e successivamente la fuga in Svizzera. L'uomo era Renzo Ravenna, Podestà di Ferrara, pragmatico nel temperamento ma di fine sensibilità culturale. A lui e alla famiglia toccò una sorte comune a molti ebrei, provocata da una famigerata legge che offese l'intelligenza degli italiani. Promulgato nel 1938, quel Regio Decreto Legge n° 1779, meglio noto con la generica espressione di Leggi razziali, proibiva agli ebrei di figurare nell'elenco del telefono, di tenere conferenze o pubblicare libri, di ordinare necrologi o annunci pubblicitari sui giornali, di frequentare luoghi di villeggiatura o semplicemente di possedere una radio. Il disappunto del Podestà Renzo Ravenna per le ingiuste proibizioni patite dai suoi correligionari, aggravò molto la situazione, e più volte dovette presentarsi davanti al Questore della città per giustificarsi di aver espresso a voce alta la disapprovazione per le misure restrittive sancite dal Regio Decreto.
Questi e molti altri i fatti raccontati ne Il podestà ebreo, storicamente documentati dall'autrice, che già in precedenza si è occupata della spinosa questione razziale del 1938 e delle conseguenze della discriminazione nei confronti degli ebrei. Leggendolo, procedendo nell'approfondimento della drammatica vicenda di una famiglia che incarna le sofferenze degli ebrei ferraresi, la mente si affolla di pensieri, e la diffusa tendenza ad autoassolverci sul piano storico appare goffa. Anche a distanza di tempo non può esserci alcun morale perdono nei confronti di quanti si adoperarono, e strenuamente, perché intere famiglie fossero non solo discriminate, ma avviate verso luoghi senza ritorno. Né può esserci comprensione, ma solo compatimento, per chi ancora oggi sostiene che le nostre epurazioni, il nostro razzismo, furono all'acqua di rose, concependo le leggi razziali più come necessità diplomatica verso il potente alleato tedesco, che non come convinta accettazione dell'apartheid. Fatto è che dal 1938 nelle scuole si impartirono demenziali lezioni sulla differenza tra ebrei e non ebrei, legittimando l'idiozia di una selezione tra gli uomini che si innestò facilmente in menti paranoiche, e attecchì altrettanto facilmente in insospettabili personalità politiche e culturali dell'epoca.
Eppure questo libro ci insegna che un'umanità grande pervadeva coloro che, carnefici o perseguitati, con le leggi razziali e la coscienza dovettero fare i conti. Famiglie come quella dei Balbo, dei Quilici e dei Ravenna, che da sempre si frequentavano in amicizia, si prestarono soccorso materiale e morale anche quando una frattura, per così dire "ideologica", le voleva divise. Il delicato argomento è svolto da Ilaria Pavan sul piano squisitamente storiografico, riportando fonti preziose che ricava dalle memorie dei componenti la famiglia Ravenna e dai documenti d'archivio, anche svizzeri, dai quali emerge peraltro l'importanza dell'azione esercitata in favore dei rifugiati dal Verband Schwezerischer Jüdischer Flüchtlingshilfen (VSJF), Unione Svizzera dei Comitati Ebraici di Assistenza ai Rifugiati.
Ma è Alberto Cavaglion, che nella conclusiva postfazione al libro comprova il rigore documentario dell'autrice, richiamando inevitabilmente il grande assente che qui non può e non deve mancare, e per gli antichi legami di amicizia con la famiglia Ravenna, e perché ha l'autorevolezza per dare liceità ad un ponte gettato fra storia e letteratura. Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi fornisce il ritratto letterario del podestà ebreo, e ne presta la fisionomia a Geremia Tabet in Una lapide in Via Mazzini. Per chi non si accontenta e vuole altre conferme nell'iconografia, metta in relazione la descrizione di Renzo Ravenna resa da Giorgio Bassani con l'istantanea scattata nel novembre 1943 dalla polizia svizzera, pubblicata con il numero 17 nell'apparato fotografico al centro del volume. Ne resterà certamente sorpreso.


I. PAVAN, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, Roma-Bari, Laterza, 2006.